E' uscito lo scorso 13 settembre "A
dramatic turn of events", undicesimo cd della band progressive metal più
importante al mondo. Dopo l'abbandono di Mike Portnoy esattamente un anno fa,
le voci su un possibile scioglimento della band, come su un possibile cambio
del nome (deciso dal padre dello stesso Portnoy) si erano inseguite, restando
sospese sul lungo silenzio della band, che nel frattempo stava scegliendo il
nuovo batterista e mettendosi al lavoro sull'album.
Il nome di Mike Mangini come sostituto è
arrivato a fine aprile, e da quel momento in poi l'attesa per l'uscita del
nuovo album è cresciuta di giorno in giorno.
Il cd si apre con il singolo "On the
backs of angels", di cui è di recente uscito anche il video integrale e di
cui si è già parlato in precedenza, pezzo di quasi nove minuti non troppo
tecnico, senza momenti veramente intensi ma che si fa ascoltare con molto
piacere, soprattutto se piazzato com'è all'inizio dell'album.
Sulla stessa linea si piazza la seconda
traccia, "Build me up, break me down", la più immediata, -sebbene
duri comunque sette minuti- con un tipico riff progressive all'inizio e un
ritmo incalzante, con alcuni elementi che ricordano addirittura un aspetto più
"pop" della band. Nel ritornello sentiamo un LaBrie praticamente
inedito tirare fuori dal cassetto la tecnica dello screaming per andare in
altissimo nelle seconde voci. La canzone non ha assoli nè lunghe parti
strumentali, e si chiude con le tastiere di Rudess che conducono l'ascoltatore
al brano successivo.
"Lost not forgotten" è uno dei
pezzi più difficili mai scritti dalla band. Finalmente sentiamo un Mangini in
forma e convinto al suo posto dietro la batteria, e l'unisono chitarra-tastiera
nell'introduzione fra Petrucci e Rudess è impressionante. Lo stesso Petrucci ha
dichiarato che per registrare la canzone ci sono stati dei problemi dovuti alla
grande difficoltà di quel passaggio. Usciti dall'unisono si entra con un riff
aggressivo che ricorda l'heavy metal degli anni '80 nelle strofe e poi nel
ritornello, veloce e "cavalcante". La sezione strumentale è,
anch'essa, fra le più tecniche mai scritte dal gruppo, con cambi di tempo a
grappoli e accenti spostati e imprevedibili. Canzone a mia impressione fra le
migliori dell'album.
Una ballata in pieno stile Dream Theater è
"This is the life", quarto pezzo del cd. Sette minuti tranquilli,
tanta chitarra acustica e tastiere "aleggianti", con un assolo di
Petrucci che ricorda vagamente David Gilmour e i Pink Floyd. Molto ben
riuscita, è una canzone che probabilmente farà successo, dà un respiro prima
dei due pezzi che la seguono.
"Bridges in the sky" e la canzone
più pesante dell'album: inizia soltanto dopo un minuto e mezzo, preceduta
dall'inquietante voce dello sciamano e da un canto gregoriano che suona
altrettanto spaventoso. I riff sono fra i più duri mai scritti, anche qui i
cambi di tempo e i tecnicismi si sprecano, abbandonandosi, nella parte
centrale, ad un lungo scambio di assoli fra chitarra e tastiera e alcuni
stacchi dal sapore orientalizzante. Undici minuti di puro progressive (e anche
di puro metal) a volte dispersivi. Sperimentale fino all'eccesso, il ritornello
ha un'assonanza con quello di "Devil's Arcade" di Bruce Springsteen.
Ma sono sempre i Dream Theater.
Stesso discorso vale per "Outcry",
altri undici minuti di progressive sviluppati sul tema del testo, le rivolte in
Nord Africa e in Medio Oriente. Anche qui ci si perde un pò nell'ascolto,
tantissimi assoli, infiniti cambi di tempo, tanta tecnica (un Mangini al suo
meglio) ma poca "raggiungibilità" all'orecchio dell'scoltatore. Il
ritornello non è neanche dei più riusciti. Anche qui molti stacchi orientalizzanti
e un unisono, nella parte centrale, che ricorda moltissimo quello famosissimo
di "Metropolis pt.1". Nella parte finale, più rilassata, si tira un
sospiro fino al termine della canzone.
"Far from heaven" è un momento di
riflessione nell'ascolto del cd, una sosta: pianoforte e voce, LaBrie e Rudess,
null'altro, solo melodia e toni sognanti. E' il pezzo più breve e più
meravigliosamente tranquillo, sorprendente.
Chiudono il cd le due canzoni a mio parere
migliori. Ottava traccia è "Breaking all illusions", che vede fra le
altre cose Myung tornare a scrivere le parole di una canzone dopo 12 anni, puro
esperimento progressive, stavolta perfettamente riuscito. Tempi dispari,
arrangiamento da favola, ritornello che entra in testa e assoli di chitarra
(Petrucci straordinario) e tastiera spettacolari. Dodici minuti e mezzo che
sono capaci di rapire e sbalordire dal primo ascolto. Lunghissima e mai
stancante la parte strumentale.
"Beneath the surface" è l'ultimo
pezzo ad essere stato scritto, e chiude il cd. Poesia pura, chitarra, tastiera
e voce, un testo malinconico e un LaBrie ispirato ed emozionante. Semplice e
diretto è pure l'assolo di tastiera a metà della canzone. Forse la miglior
ballata mai scritta dalla band.
In conclusione, il cd è assolutamente da
comprare e da ascoltare. I Dream Theater sono tornati a livelli che negli
anni 2000 erano stati toccati solo da
"Six degrees of inner turbulence" e pochi altri episodi;
l'impressione è che sia forte la volontà di tagliare col passato e con Portnoy,
le parti di batteria sono ancora più complicate del solito e in generale, come
si è detto, le sezioni di pura tecnica sono dispersive, quasi esagerate. Ma un
cd così è difficile da trovare, personalmente penso che dopo gli intoccabili "Images and
words" e "Metropolis pt.2" è il miglior lavoro insieme a
"Six degrees". A voi ascolto e giudizio!
Voto: 8.5
Marco