E' uscito il 20 settembre il decimo album della band svedese fondata nel 1990 da Mikael Akerfeldt.
Il singolo uscito in precedenza, "The
devil's orchard", aveva fatto chiaramente capire cosa sarebbe stato questo
album: una rivoluzione, semplicemente, anticipata solo da alcuni momenti del
precedente album, "Watershed". Il growl e la componente death metal
sono spariti definitivamente, per lasciare spazio ad un suono anni settanta che
spazia dal rock al jazz. La nuova strada intrapresa dagli Opeth, è facile
prevederlo, deluderà o entusiasmerà i fans a seconda dei gusti. E' difficile
che in questi casi ci sia una via di mezzo. Personalmente, devo dire che
l'album mi ha deluso: è normale e ci sta che nella storia di un gruppo i gusti
e le idee dei componenti cambino, ma complessivamente vedo "Heritage"
come un album poco ispirato. La via si era cominciata ad intravedere dai tempi
di "Ghost reveries", del 2005, in pezzi come "The baying of the
hound" o "Beneath the mire", per poi delinearsi più chiaramente
in "Watershed" con pezzi come "Porcelain heart" o "Hex
omega". Ma il suono del nuovo album rimane assolutamente rivoluzionario,
nuovo.
"Heritage", la breve traccia di
apertura, è un'introduzione di piano, con una melodia orecchiabile, a "The
devil's orchard", che subito colpisce per il suono sporco che rimanda in
tutto e per tutto agli anni 70. Per non parlare dell'organo -ora nelle mani del
nuovo arrivato Joakim Svalberg, ma le parti sono state scritte dall'ex membro
Per Wiberg- che si divide fra Pink Floyd, Deep Purple e chi più ne ha più ne
metta. Subito si fanno notare gli esperimenti jazz che accompagnano l'ascoltatore
fino alla fine del cd, e la batteria di Axe molto presente, elemento centrale e
coerente per tutte le 10 canzoni. Terminato l'ascolto della seconda traccia,
chi ascolta si trova sicuramente già sbalordito, e quello che verrà dopo non lo
sorprenderà più di tanto, col rischio che alla fine una parte del cd passi
inosservato. "I feel the dark" si divide in due, una prima parte
acustica che assomiglia tanto allo stile morbido del già citato
"Watershed", con tastiere, basso e batteria che offrono un delizioso
accompagnamento alla chitarra. Dopodichè l'organo prende il sopravvento con un
accordo quasi inquietante, lanciando il pezzo in atmosfere fantascientifiche e
pinkfloydiane, fino a quando ricomincia l'arpeggio iniziale. Forse è uno dei
brani meglio riusciti.
Segue "Slither", canzone dedicata
al mito di Ronnie James Dio: riff ledzeppeliniano, canto più aggressivo, è la
canzone più veloce dell'album, che si lascia ascoltare meglio. Anche questa ha
un outro acustica.
Con "Nepenthe",
"Haxprocess" e "Famine" siamo alla parte del cd più
complessa all'ascolto: andamento molto lento, sperimentazioni psichedeliche che
assomigliano molto di più ad un lavoro di Steven Wilson, riff che a volte sono
addirittura troppo scontati. Sono forse le tre canzoni più inusuali e fuori dal
genere Opeth mai scritte dagli Opeth. Sempre più in primo piano le tastiere e
l'organo di Wiberg e la batteria di Axe. Per concludere, fanno capolino anche
flauti e percussioni sudamericane. Si torna a respirare un pò del solito Akerfledt
con "The lines in my hand": iff di basso graffiante, ritmo
incalzante, linee vocali ben curate. Forse la canzone migliore.
"Folklore" è un brano molto lungo,
anche questo dall'andamento lento, che però non stanca. Interessante il lavoro
delle chitarre, gli ultimi tre minuti sono cavalcanti il giusto per ridarci un
pò di carica nell'ascolto. L'edizione "normale" si chiude con
"Marrow of the earth", traccia strumentale praticamente di sole
chitarre, batteria e tastiere entrano nel finale per fare da tappeto. Può
ricordare la colonna sonora di un film noir, molto tranquilla.
In generale, il patrimonio con cui Akerfeldt
nomina questo cd è il patrimonio degli anni settanta, i gusti musicali del
compositore che si riversano senza freni in "Heritage". Non è un cd
da sottovalutare, innanzitutto perchè dimostra ancora una volta di più che gli
Opeth sanno cambiare, e non solo col passare degli anni come era stato fino
adesso, ma anche di colpo. Non è sicuramente il loro album più ispirato, le
idee buone ci sono ma sono talmente sparse qua e là che si perdono. Allo stesso
tempo, non c'è una canzone che spicchi e che ti possa far dire che almeno un
capolavoro c'è: il tono del cd è molto simile in tutte le traccie, lente e
jazzistiche. Penso che in futuro sapranno farci sognare di nuovo, magari se
Akerfeldt riuscisse a reimpossessarsi del canto growl che ora ha anche
eliminato dalle scalette del prossimo tour..
Voto: 5
Marco
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